Ho avuto modo di far parte, nel mese di agosto del 2009, quando l’emergenza era cessata ma la ricostruzione era ancora solo una parola pronunciata a fatica, di una delle tante squadre di intervento inviate dal MiBAC a L’Aquila per valutare i danni fatti dal sisma del precedente aprile al patrimonio culturale.
Ho visto, in quell’occasione, l’assenza prendere corpo e farsi quotidianità. Assenza di vita, di voci, di un domani da programmare. Il tutto dentro un tempo ormai piegato su sé stesso.
In quel quotidiano, il nostro lavoro: la rilevazione e la valutazione dei danni, la salvaguardia di quel che restava. Il senso di smarrimento e di silenzio dell’anima si impadroniva degli sguardi e si contrapponeva alla “asetticità” di un report destinato a vedere solo i fatti e non ciò che essi raccontavano.
Per narrare la dicotomia tra l’oggettività necessaria allo svolgimento del compito che eravamo chiamati a svolgere e l’emotività che invece permeava ognuno di noi, ho fotografato degli oggetti simbolo del lavoro fatto e li ho contrapposti a due elementi per me rappresentativi della stasi che permeava i luoghi in quei giorni: le statue imbozzolate, in attesa di tornare a “vivere” nelle chiese e tra la gente e i portoni pieni di macerie, confini tra tragedia e idea di un futuro tutto da (ri)costruire.